Il ddl Zan: un bilancio critico

Il ddl Zan: un bilancio critico.

di Giuseppe Savagnone

Il 19 novembre nella chiesa della Madonna di Monte Oliveto, presso il Seminario di Palermo, si è svolto l’incontro del Serra Club di Palermo col prof. Giuseppe Savagnone sul tema: Il ddl Zan: un bilancio critico. Il tema dell’incontro era stato concordato dal Direttivo con i seminaristi stessi. Ringraziamo il prof. Savagnone per la disponibilità, la chiarezza dell’esposizione e per averci donato il testo che segue per il sito del Serra Italia. Per un approfondimento del tema, il prof. stesso ci ha indicato un suo testo: Il Gender spiegato a un marziano.

La portata educativa del ddl

Può sorprendere che un ddl, il cui immediato obiettivo era semplicemente di aumentare le pene per reati sostanzialmente già previsti dal nostro Codice, abbia suscitato le violente polemiche di cui siamo stati testimoni in questi ultimi mesi. Il fatto è che la vera posta in gioco non sono mai stati gli anni in più o in meno che un eventuale omofobo violento dovrebbe scontare, ma il carattere fortemente simbolico e pedagogico che la nuova legge avrebbe avuto.

La legislazione di un Paese, infatti, non mira solo a regolamentare singole situazioni, bensì a influenzare la mentalità e il costume, plasmando così il volto di una società e delle persone che vivono in essa. Le norme giuridiche, insomma, in quanto rendono lecito o illecito un certo comportamento, additandolo pubblicamente come espressione di un valore o di un di-valore, hanno anche una funzione educativa.  Aristotele non faceva che dar voce al buon senso quando scriveva che «i legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini» (Etica Nicomachea, 1103 b).

Per questo, a quanti facevano notare che già nel nostro Codice penale è ampiamente assicurata una tutela dei diritti delle persone – inclusi, ovviamente, gli omosessuali – , concludendone che questa nuova normativa era dunque superflua, i sostenitori del ddl Zan hanno sempre replicato che nel nostro ordinamento manca, però, una specifica menzione dei reati legati all’omofobia, che invece è presente  nella legislazione di molti altri Paesi.

In quest’ottica, non basta che gli individui siano tutelati come persone: devono esserlo, esplicitamente, nella loro «identità sessuale» e nei loro «orientamenti sessuali», assunti così come valori riconosciuti dalla collettività e ormai indiscutibili.

Un’esigenza condivisibile

Per questo il ddl non si riduceva – come dicevano i suoi sostenitori – alla tutela di soggetti emarginati e perseguitati per la loro diversità sessuale. Un simile progetto sarebbe stato pienamente condivisibile. La nostra storia passata e presente è piena di «pregiudizi, discriminazioni, violenze» nei confronti di gay, lesbiche, transessuali.  Le persone omosessuali sono state – e spesso sono ancora – derise, umiliate, emarginate, a volte anche perseguitate.  Le si è costrette a nascondersi, a mascherare la loro vera identità e a darle libera espressione solo nell’oscurità di ambienti ambigui e violenti, privandole così del diritto di avere una vita affettiva – non solo sessuale! – come tutti gli altri. E ancora oggi suscita scandalo in tanti la presa di posizione di papa Francesco, quando afferma che «gli omosessuali sono figli di Dio», esattamente come gli etero, portatori come tutti dell’immagine di Dio impressa nei loro volti.

Si capisce allora che alla base del disegno di legge ci fosse  non solo e non tanto la volontà di combattere, assumendoli come  reati formali, comportamenti spregevoli ancora tristemente riscontrabili nella cultura diffusa, ma quella di rivendicare la dignità umana di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Su questo nessuno, tanto meno i credenti, potrebbe e dovrebbero avere nulla da obiettare.

Solo che, per realizzare questo più che legittimo obiettivo, sarebbe bastato il ddl Scalfarotto (che il testo dell’on.  Zan ha assorbito e sostituito), in cui ci si limitava a rendere simbolicamente più pesanti le pene per i reati «fondati sull’omofobia o sulla transfobia». La novità del nuovo ddl era invece l’introduzione di categorie concettuali proprie delle gender theories, che, se il testo fosse stato approvato, sarebbero state riconosciute e rese vincolanti nel nostro ordinamento giuridico.

Il genere sganciato dal sesso

Quella su cui più acceso è stato il dibattito è espressa nella definizione, contenuta nell’art. 1, dell’«identità di genere»: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione».

Mentre il sesso è costituito da quell’insieme di caratteri biologici e morfologici, inscritto nella corporeità di una persona fin dalla sua nascita, per cui si è maschio oppure femmina, ed è dunque un dato oggettivo, l’«identità di genere» dipende dalla percezione che il soggetto ha di sé anche se questa non corrisponde al sesso. E ciò anche se non ha già «concluso un percorso di transizione», in altri termini, anche se non ha ancora “cambiato sesso” con l’aiuto di interventi chimici o chirurgici.

Ora, che si possa distinguere tra il sesso biologico e la percezione soggettiva della propria «identità di genere» (nella stragrande maggioranza dei casi, peraltro, corrispondente al sesso), è indiscutibile. Non si nasce uomo, come non si nasce donna. La caratterizzazione biologica e morfologica distingue i sessi, trova, però, la sua piena realizzazione quando il maschio e la femmina se ne appropriano attraverso la loro crescita complessiva.

Ma questo non significa che la dimensione fisica sia irrilevante, come pretendono le gender theories nelle loro forme estreme. I corpi, con la loro struttura biologica morfologica, hanno un loro racconto che deve essere ascoltato e non può essere messo tra parentesi, affidandosi solo a una esperienza soggettiva come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso».

La corporeità non può dunque essere liquidata come un puro insieme di “pezi” e di meccanismi biologici. Essa è strutturalmente umana e meritano di essere rispettata e valorizzata, nella consapevolezza che l’identità sessuale completa di una persona non dipende solo dalla sua struttura corporea, ma anche nella certezza che non può prescindere da essa.

Ora, fissare come normativa, in un testo legislativo, l’«identità di genere», a prescindere dal sesso, significa mettere in secondo piano, in linea di principio, questa dimensione fisica, biologica, corporea, di una persona, per privilegiare unilateralmente la sua percezione soggettiva.

Si ha, ovviamente, il diritto di vedere le cose in questo modo, ma bisogna rendersi conto che questo non è più un dato bensì, per quanto molti si accaniscano a negarlo, una teoria – o, più precisamente, una ideologia -, una ben precisa concezione della sessualità, che, se fatta propria dall’ordinamento, avrebbe creato un precedente, anche al di fuori delle questioni specifiche affrontate nel ddl Zan.

La protesta delle femministe

A evidenziarlo, curiosamente, sono state ben 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica, che in un loro documento, hanno protestato contro di esso, citando un esempio molto concreto: «In California 261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili».  Con grande allarme, ovviamente, delle donne in senso biologico detenute in queste carceri.

Ma ci sono altri casi che balzano agli occhi. Che succederebbe se un individuo caratterizzato biologicamente come maschio dicesse di “sentirsi” donna e pretendesse, perciò, di essere ammesso nel bagno o nello spogliatoio femminile? Negarglielo non significherebbe discriminarlo, misconoscendo la sua «identità di genere»…?

E, nelle discipline sportive in cui è fondamentale la distinzione tra le gare femminili e quelle maschili, basata sulla differenza di sviluppo muscolare, potrebbe essere ammesso alle prime, come concorrente, un maschio che “si sentisse” donna?

Insomma, una simile visione, secondo le associazioni femministe che l’hanno contestata, non rispetta la peculiarità dell’identità femminile e i suoi spazi propri. Nel loro documento si osserva a questo proposito: «Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».

Gli effetti sulla famiglia e sull’educazione

Anche senza arrivare a queste ipotesi estreme, una legge in cui si fosse sancita solennemente la perfetta “normalità” e la piena equiparazione dei comportamenti transessuali e omosessuali a quelli eterosessuali avrebbe avuto una immediata ricaduta sull’immagine condivisa della famiglia, prima ancora che sul suo regime giuridico.  A cominciare dall’estensione alle coppie gay o lesbiche del diritto morale di avere dei figli con tutti i mezzi a disposizione, magari ricorrendo a quello, squallido, dell’utero in affitto, già purtroppo utilizzato anche da qualche coppia etero, e che per quelle gay sarebbe stato l’unico possibile.

Ma gli effetti più dirompenti di questa “rivoluzione culturale” sarebbero stati a livello educativo. Nell’art. 6, del ddl si prevedeva l’istituzione di una “Giornata nazionale contro l’omofobia” – che sarebbe stata celebrata il 17 maggio – in cui sarebbero state organizzate «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole».

Quale messaggio sarebbe stato proposto in questa occasione e in tutte le alte che indubbiamente, all’ombra di quella, si sarebbero moltiplicate? Per saperlo, basta andare a vedere i tentativi già fatti in un recente passato per far entrare le gender theories nel nostro sistema educativo.

Alcuni anni fa, su commissione di un ufficio governativo, l’UNAR, l’Istituto Beck ha elaborato, con la collaborazione delle associazioni LGBT,  tre opuscoli – uno per ogni diverso livello di scuola – con l’unico titolo Educare alla diversità nella scuola, destinati ad essere distribuiti a tutti gli insegnanti (in realtà la distribuzione fu poi bloccata nell’aprile del 2014, da una decisione del Miur, dopo che il quotidiano dei vescovi «Avvenire» aveva denunciato la problematicità del loro contenuto). Lo scopo era di combattere ogni forma di discriminazione dei “diversi”, con particolare riferimento all’aspetto sessuale.

Proprio in questa polarità veniva infatti individuata la matrice della violenza. Da qui la necessità di superarla: «Nella società occidentale si dà per scontato che l’orientamento sessuale sia eterosessuale.  La famiglia, la scuola, le principali istituzioni della società, gli amici si aspettano, incoraggiano e facilitano in mille modi, diretti e indiretti, un orientamento eterosessuale.  A un bambino è chiaro da subito che, se è maschio, dovrà innamorarsi di una principessa e, se è femmina, di un principe. Non gli sono permesse fiabe con identificazioni diverse» (Istituto Beck, Educare alla diversità a scuola. Scuola primaria, p.3).

Per rimediare a questa situazione, negli opuscoli in questione si raccomandava agli insegnanti, fin dalla scuola primaria,  di «non assegnare attività diverse a seconda del sesso biologico, di «non usare analogie che facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa (cioè che assuma che l’eterosessualità sia l’orientamento “normale”, invece che uno dei possibili orientamenti sessuali)» di far capire ai bambini/ragazzi/adolescenti che  «i rapporti sessuali omosessuali sono naturali», equiparandoli sistematicamente a quelli etero: «Quindi potremmo ribaltare la domanda chiedendoci: “i rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?”» (ivi, p.23). Si chiedeva inoltre di far sempre riferimento, nell’attività didattica, alla famiglia gay, perfino nel proporre di problemi di matematica. Per esempio: “Rosa e i suoi papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar. Se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”» (ivi, p.6).

Si tratta di una linea che per superare l’innegabile proliferare della violenza nei confronti dei “diversi”, piuttosto che educare al rispetto della diversità, punta sulla sua neutralizzazione, promuovendo l’idea che la polarità sessuale maschio-femmina è irrilevante. Da qui l’impegno sistematico, sul piano educativo, a sganciare l’«identità di genere» dalla corporeità, affidandola alla esperienza soggettiva di singoli.

Dal punto di vista pedagogico ci si potrebbe chiedere se sia opportuno caricare di un simile problema personalità ancora molto acerbe (si comincerebbe fin dalla scuola primaria), in una fase della vita in cui l’identità sessuale ha ancora bisogno di definirsi e il riferimento alla propria caratterizzazione sessuale in senso biologico è molto importante.

Ma, più in generale, si tratterebbe di una “rivoluzione culturale”, a cui la codificazione giuridica della «identità di genere» contenuta nel ddl Zan darebbe la sua copertura, senza che questo concetto sia stato mai veramente discusso e accettato democraticamente. Giusta o sbagliata che sia questa concezione della persona e della sessualità, non si rischia di introdurre, così, surrettiziamente, un’ideologia di Stato, contro le logiche di una società veramente pluralista?

Tanto più che si voleva che questo messaggio giungesse non solo agli studenti della scuola secondaria, maggiormente in grado di valutarlo criticamente, ma a quelli di ogni orine e grado, fin dalle elementari, come dimostra che,  nel dibattito alla Camera sul ddl Zan è stato espressamente respinto un emendamento che chiedeva fosse introdotta, per i più piccoli, la condizione del consenso dei genitori.

Il problema della libertà di pensiero e di espressione

Un punto su ci molto si è discusso – e su cui si è avuto anche un diretto intervento della Santa Sede, è quello della libertà di pensiero e di esperssione. Nel ddl Zan si prevede un aggravio di pena per chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione» nei confronti di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Ora, come ha fatto notare il card. Parolin, spiegando l’opposizone della Segretreria di Stato vaticana, «il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo».

Basta, del resto, cercare nel vocabolario «Trecccani»:  il significato di “discriminare” è «distinguere, separare, fare una differenza». Ora, è chiaro che chi – come la Chiesa cattolica, ma non solo – non condivide l’equiparazione piena tra i rapporti eterosessuali e quelli omosessuali, sta ponendo per ciò stesso  una differenza, una discriminazione tra i primi e i secondi. Rientra per questo nella fattispecie criminale prevista dal ddl?

E’ vero che, per rispondere a queste preoccupazioni era stato inserito appositamente nel testo l’articolo 4, che esclude dalla punibilità «la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte». Ma anche questa precisazione contiene, alla fine, una postilla non insignificante: «purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti».

Mettendo da parte l’ipotesi estrema della violenza, un giudice non avrebbe potuto considerare una omelia, una catechesi in cui si ricordi a tutti i fedeli che quello tra uomo e donna è l’unico “vero” matrimonio, come manifestazioni di pensiero «idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori»?

Quand’è che la discriminazione – il “fare la differenza” – tra eterosessualità e omosessualità è l’implicazione di una visione dell’essere umano, del corpo, della sessualità, pur nel pieno rispetto delle persone, e quando invece comporta il proseguimento di una secolare, triste tendenza, ancora molto diffusa, a insultare, umiliare, perseguitare, emarginare chi è “diverso”? Questo il ddl Zan non lo precisa.

Qualcuno dirà che già ammettere una diversità è una forma di emarginazione. Non è vero. È proprio questo l’equivoco delle gender theories, quando puntano a “decostruire”, o comunque a minimizzare, la differenza sessuale inscritta nella biologia e nella morfologia dei nostri corpi, considerandola automaticamente fonte di ingiustizia e di violenza. Non è vero che si può rispettare l’altro solo se si elimina la sua diversità.  Al contrario, il vero rispetto nasce proprio dall’accettazione delle differenze. La reazione contro l’“omofobia” non può giustificare una altrettanto disastrosa “eterofobia”, che purtroppo corrisponde alle tendenze omologanti della nostra società.

Una gestione infelice da entrambe le parti

Che alla fine il ddl Zan non sia diventato legge, alla luce di queste osservazioni, è senz’altro positivo. Ma questo esito è stato ottenuto a prezzo di profonde lacerazioni e della negazione anche degli aspetti condivisibili che il testo presentava.

Il fato è che la gestione “politica” di queste legittime esigenze, da entrambe le parti in conflitto, ha lasciato molto a desiderare e ha impedito di mettere a fuoco i punti su cui una convergenza era possibile. A lungo la posizione della Cei è stata del tutto negativa verso il ddl legge Zan, bollato in blocco come superfluo e liberticida.  Non si sono colte le esigenze in sé giuste che esso rappresentava e non si è fatto lo sforzo per distinguerle dalle formulazioni sbagliate.

Solo in extremis – quando ormai era chiaro che il testo stava per diventare legge – in una battuta con i giornalisti il card. Bassetti ha precisato che l’intento dei vescovi non era di affossare il testo, ma di modificarlo. Come del resto oggi ribadisce la Santa Sede, che però è intervenuta troppo tardi per avviare un dialogo costruttivo e si è attirata, con il suo passo, accuse di ingerenza del tutto infondate (qui si tratta del rispetto di un accordo tra due Stati e del legittimo confronto tra essi quando nascono dei problemi), ma accolte in blocco da un’opinione pubblica poco abituata (ancora una volta) a fare distinzioni.

Dal lato del Parlamento si è lasciato che gli equivoci del ddl permanessero, dando spazio alle fazioni che vedono nella battaglia sulle questioni etiche un modo per smantellare la tradizione etica del nostro Paese. Particolarmente assordante il silenzio dei deputati e senatori cattolici disseminati sia a destra che a sinistra, con la sola eccezione – purtroppo sospetta – di quelli che da tempo cercano di accaparrarsi l’elettorato cattolico, ostentando ad ogni occasione una ispirazione evangelica su cui il loro programma complessivo suscita almeno dei legittimi dubbi.

Solo alla vigilia del voto che poi ha silurato il ddl – anche qui, dunque, con evidente ritardo – il segretario del Pd Letta ha avanzato una cauta apertura a eventuali modifiche (peraltro suscitando l’immediata protesta delle associazioni LGBT).

Non resta che sperare che in futuro – perché il problema si ripresenterà, prima o poi – ci sia maggiore saggezza da parte di tutti, per arrivare a una soluzione legislativa che a un lato difenda la dignità delle persone, senza fare entrare nel nostro ordinamento una ideologia di cui abbiamo cercato di mostrare gli errori.