Lettera di don Michele Gianola ai serrani

Cari amici e care amiche del Serra Italia,

mai come quest’anno penso che abbiamo bisogno – per questa Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni – di sostare in silenzio, per approfondire le cose, per non lasciarci travolgere dal turbinio di parole, di emozioni, di turbamenti che accompagnano questo tempo. È necessario fermarsi, sembra paradossale perché stiamo in casa da quasi due mesi, per poter ad andare al fondo delle cose, imparare ad ascoltare la voce dell’umanità e quella del pianeta per cogliere i semi di bene che lo Spirito ha sparso in questo deserto.

È strano e alquanto paradossale come questo tempo somigli per tanti di noi a quello dei primi racconti della Pasqua. «Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano […] venne Gesù» (Gv 20,19). Anche noi siamo in casa, con le porte chiuse e nel nostro cuore, come in quello dei discepoli, abitano paura, angoscia, delusione, speranza, desiderio di una vita nuova e non soltanto rinnovata. Mi affascina come gli incontri con il Risorto avvengano in luoghi quotidiani: un sepolcro, una locanda, una barca di pescatori. Lo incontri là, dove meno te lo aspetti: attorno alla tua tavola, in due chiacchiere sul divano, in una telefonata tra amici, in una delle mille videochiamate di gruppo di questo periodo.

Il Signore è là, nascosto nella ferialità dei giorni, racchiuso dalla nostra storia, nei fatti della vita di tutti, in quel quotidiano – mai banale – che somiglia ad una tela della quale egli costituisce l’ordito e tesse, insieme a noi e alle sue creature – tra le quali annoveriamo anche il tempo (cfr. Gen 1,14) e la natura – la trama delle nostre vite.

La spola di questi giorni ha portato con sé molta sofferenza e tanti cari hanno compiuto il loro ultimo passaggio; ci ha spogliati di molte cose, ci ha spinto all’essenziale, a chiederci che cosa davvero conti nella vita, quali siano le cose importanti e quali le superflue ci ha costretto – e ancora ci costringe, nostro malgrado – al discernimento per cercare di intuire ciò che è buono e ciò che non lo è, ciò che è da abbandonare o da custodire, da tenere o da lasciar andare.

La spola di questi giorni è corsa veloce anche se talvolta il tempo sembrava non passare mai, le tenebre mai diradarsi eppure noi siamo stati costretti a rallentare, riconoscere la nostra fragilità e impotenza, ad accorgerci che ci siamo illusi a credere che tutto potesse essere controllato, gestito, governato dalle nostre mani. Abbiamo capito che da soli non ci si salva, che siamo tutti sulla stessa barca e che ha la forma di un pianeta fluttuante nello spazio e che è l’unico che abbiamo e che ci è affidato perché ce ne prendiamo cura, insieme.

Attraverso queste e molte altre cose che ciascuno di noi può imparare ad ascoltare, abbiamo intuito che nessuno di noi è nato da solo e che nessuno è fatto per essere solo, siamo intrecciati in una grande rete di relazione, tra mille connessioni che noi credenti conosciamo come Corpo di Cristo. Abbiamo imparato che la vita dell’uno è legata alla vita dell’altro (Gen 44,30) e che la nostra vocazione è sempre insieme a qualcun altro e a servizio di qualche altro. Perché alla fine e al nocciolo delle cose, l’unica cosa – mi perdonerete la ripetizione – che rimane è la carità. Che ciò che davvero conta sono le relazioni buone, l’essere guardati e riconosciuti, ascoltati, interpellati, coinvolti, curati, amati. Che della vita c’è, in effetti, un’unica via, quella migliore (Chv 143) di tutte (1Cor 13) ed è l’unica che resta e ciò per cui ogni vita è fatta: amare.

Vista così, la vocazione è come camminare su un crinale, tra il desiderio di donarsi e il bisogno di trattenersi, tra la spinta ad amare e la brama di essere amati, tra la scelta di spendere la vita e l’esigenza di custodirla. Tesi tra queste polarità, camminiamo nella storia insieme con Dio, consapevoli di scivolare solo sull’uno o sull’altro dei versanti dell’amore. Delle cadute tutti noi portiamo i segni e le ferite ma soltanto chi ha provato la fatica del camminare ha imparato a guardare all’altro come un compagno di viaggio, un amico di cordata di quella grande opera che abbiamo da compiere insieme: fare che le nostre cose di terra, siano sempre più simili al Cielo (Mt 6,10).

don Michele Gianola

m.gianola@chiesacattolica.it

 

Roma, 27 aprile 2020