Fine vita: tra fede e libertà
E’ del 25 settembre 2019 il comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale che, in attesa del deposito della sentenza, informa che la Corte ritiene non punibile, ai sensi dell’art. 580 del codice penale e a determinate condizioni, “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Una sentenza storica che, di fatto, consente a un soggetto, nel pieno delle sue facoltà di intendere e di volere, di decidere cosa fare della sua vita, qualora una malattia incurabile o un grave infermità lo metta in condizione di porre fine alla vita stessa. La Corte ha ribadito, però, come resti indispensabile l’intervento del legislatore che finora non ha mai affrontato compiutamente la materia.
Le reazioni a questa innovativa sentenza non sono venute a mancare. Da quelli più favorevoli, che considerano la sentenza “un atto di libertà” perché dà ragione a chi ha condotto questa battaglia di libertà. Da quelli, invece, che hanno reagito in senso diametralmente opposto, che vedono in questa sentenza soprattutto una sconfitta del diritto a vivere, dove la preoccupazione maggiore è rivolta soprattutto alla spinta culturale che può portare soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla sua esistenza sia una scelta di dignità.
Un grido di allarme e di dissenso è giunto, soprattutto, dal corpo sanitario e dalla Chiesa.
“Per noi – ha detto il dott. Antonio Magi, Presidente del più numeroso Ordine dei medici d’Europa – prevale il codice deontologico che, tra i primi articoli indica il nostro dovere principale, la tutela della vita, non la sentenza della Corte che, peraltro, non ci indica come figure di riferimento per accompagnare alla morte”. Il codice di deontologia medica, che è il corpus di regole di autodisciplina della professione medica, infatti, parla chiaro e all’art. 17 impegna i medici, con giuramento professionale, “a perseguire come scopo esclusivo la difesa della vita” e “ a non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte del paziente”. Per l’attuazione della sentenza della Corte altre persone, pertanto, dovrebbero essere indicate al posto dei medici, figure che rappresentino lo Stato come pubblico ufficiale.
Anche la Chiesa, con la CEI in prima linea, dissente dalla sentenza della Corte Costituzionale. “Non comprendo come si possa parlare di libertà – ha detto Mons. Stefano Russo, Segretario Generale della CEI – perché qui si creano i presupposti per una cultura della morte in cui la società perde il lume della ragione”. Lo stesso Mons. Russo, al termine dei lavori del Consiglio permanente Vescovi italiani, punta l’attenzione sull’anomalia di un pronunciamento, così vincolante, a cui si arriva senza un passaggio parlamentare. In concreto, in vista di una legge che recepisca la sentenza della Corte, la Chiesa chiede di lasciare libertà di coscienza ai medici, anche perché – spiega Mons. Russo – “i medici sono lì per salvare le vite e non per aiutarle a morire”.
La questione passa ora nelle mani della politica, dove è già iniziato un acceso dibattito per i giudizi contrastanti tra i vari partiti. La sentenza della Corte rimanda, infatti, al legislatore la responsabilità di decidere su questa difficile materia e il Parlamento è chiamato a rispondere senza alibi dopo anni di disinteresse totale. La speranza è che il Parlamento, nel suo complesso, percepisca l’importanza di trovare una soluzione legislativa, che sgombera e libera da ideologie, possa decidere responsabilmente su questa delicatissima materia, secondo coscienza e vero senso di responsabilità, nel rispetto e nella difesa dei valori umani.
Cosimo Lasorsa